La guerra fra Israele e il popolo palestinese va avanti da decenni e non è certo iniziata il 14 novembre scorso come si potrebbe pensare. Essa si è acuita in particolar modo in questo periodo con il lancio dell’operazione israeliana “Pillar of Defense”, letteralmente “pilastro di difesa”, nel corso della quale e a dispetto del titolo, Israele ha attaccato in maniera decisa la striscia di Gaza colpendo precisi obiettivi militari e, purtroppo, anche numerosi civili. Oggi fanno notizia i morti e i feriti, in gran parte civili palestinesi, ma le vittime di questi giorni non sono certo diverse da quelle quasi totalmente ignorate dai media nei giorni, nei mesi e negli anni precedenti.
Diverse motivazioni possono spiegare perché proprio in questo periodo il conflitto si sia acceso e sia balzato prepotentemente in prima pagina sulla cronaca ufficiale. Potrebbe non essere un caso che ciò sia avvenuto pochi giorni dopo la rielezione del Premio Nobel per la Pace Barack Obama, in piena campagna elettorale di Benjamin Netanyahu in vista delle prossime elezioni del 22 gennaio 2013 e a ridosso dell’atteso pronunciamento dell’Assemblea Generale dell’ONU sulla richiesta di riconoscimento ufficiale dello stato palestinese presentata oltre un anno fa dall’ANP. Pronunciamento che dovrebbe avvenire il prossimo 29 novembre e che, in caso di esito positivo per i palestinesi, sarebbe un dramma per il futuro politico del premier israeliano.
Scelgo di non entrare in merito alle origini del conflitto e alle ragioni che animano le due opposte fazioni, perché riconosco che la questione è estremamente complicata, di difficile lettura e solo chi l’ha vissuta direttamente e per intero può trarne conclusioni fondate ed attendibili. Non è opinabile, però, che lo scontro sia assolutamente impari e vede da una parte una delle nazioni meglio armate del mondo, a capo del traffico d’armi internazionale, in possesso di centinaia di testate nucleari, di un esercito di professionisti, nonché dei mezzi militari e degli armamenti più avanzati fra cui lo scudo antimissile Iron Dome. Un paese appoggiato politicamente e militarmente dagli Stati Uniti, la nazione più potente del pianeta, con la silente complicità delle organizzazioni internazionali, ONU in testa, che sulla questione hanno sempre voltato la testa.
Dall’altra parte c’è Hamas, un’organizzazione politico-militare, male organizzata, male armata, senza forze aeree e navali, senza contraerea, capace di condurre sporadici attacchi, spesso suicidi, verso obiettivi israeliani ma assolutamente non in grado di difendere la popolazione che affolla densamente la striscia di Gaza, tanto che è praticamente impossibile che un qualsiasi ordigno che cada sul territorio palestinese non provochi una strage di civili, soprattutto di bambini innocenti.
L’intensificazione del conflitto israelo-palestinese sta comunque dimostrando che le guerre del ventunesimo secolo si combattono parallelamente anche sui social network. L’IDF (Israel Defense Forces) e la frangia armata di Hamas, la brigata Izz al-Din al-Qassam, si affrontano anche su Twitter a suon di propaganda, minacce reciproche e pubblicizzazione dei rispettivi risultati militari. Tutto è iniziato il 14 novembre con il lancio dell’operazione militare israeliana tramite l’account @IDFSpokesperson, poco prima di far saltare in aria l’auto su cui viaggiava Ahmed Al-Jaabari, capo militare di Hamas, continuando poi con la pubblicazione su YouTube del relativo video e l’esposizione su Twitter e Facebook della foto della vittima con la scritta “Eliminated”. Hamas ha confermato l’assassinio del proprio leader tramite l’account @AlqassamBrigade, profondendosi poi a sua volta in minacce e atti di propaganda. Il conflitto mediatico va avanti tuttora senza sosta e può essere seguito su Twitter utilizzando gli hashtag #Gaza, #GazaUnderAttack, #Hamas, #Israel, #Palestine, #ShaleStones, #IsraelUnderFire e #PillarOfDefense.
Social media, blog e siti d’informazione indipendente di soggetti focalizzati o ubicati sul territorio offrono diversi reportage forniti direttamente, con informazioni di prima mano, fotografie e dati non manipolati né filtrati. Purtroppo, come sempre avviene nei conflitti, i rapporti parlano di vittime, feriti, sangue e devastazione, con fotografie drammatiche e filmati impietosi a corredo. Ovviamente il popolo del Web si è subito schierato, chi da una parte, chi dall’altra, spesso senza avere la minima cognizione di causa e quasi come se si trattasse di un confronto sportivo, dimenticando che a subire il conflitto e a morire sono soprattutto persone civili, inermi e indifese, senza particolari colpe se non quella di vivere in una zona contesa per motivi politici e militari.
Questa mole di informazioni generate e distribuite in tempo reale ha contribuito ancora una volta, qualora ve ne fosse bisogno, a smascherare la vergognosa opera di filtro, censura e manipolazione tendenziosa svolta dall’informazione ufficiale. Leggendo le testate e ascoltando i telegiornali, non c’è nemmeno bisogno di approfondire i contenuti per capire chiaramente come ci si trovi di fronte all’ennesima ignobile attività di mistificazione: basta fermarsi ai titoli, costruiti appositamente per indirizzare l’opinione pubblica verso una sola direzione. In questi giorni si è assistito a prime pagine con immagini di civili israeliani dentro ai rifugi, con la denuncia del clima di terrore nel quale sono costretti a vivere i cittadini di Israele, con il clamore dei razzi su Tel Aviv, con le immancabili cifre relative ai morti e ai feriti, senza però specificare che sono quasi tutti ragazzi e bambini palestinesi.
Com’è ormai costume, si cerca solo di suscitare sensazione, difendendo apertamente il diritto di Israele a difendersi, quando è chiaro che da tempo si svolgono ripetute azioni di guerra ed eccidi contro civili palestinesi e che la miccia della recente recrudescenza del conflitto è stata accesa proprio dall’IDF. Se non apriamo gli occhi e non stiamo attenti, citando Malcolm X, i media ufficiali “riusciranno nell’intento di farci odiare le persone che vengono oppresse e amare coloro che opprimono“.
Un altro fenomeno nuovo per un conflitto militare è costituito dall’operazione cibernetica lanciata dal gruppo di hacker attivisti Anonymous che hanno attaccato numerosi siti web israeliani con azioni di DoS e defacement, schierandosi apertamente a favore del popolo palestinese e condannando l’operato di Israele. L’operazione, tuttora in atto, può essere seguita in tempo reale su Twitter utilizzando l’hashtag #OpIsrael. La popolazione di Gaza e dei territori occupati può così godere del sostegno morale, magra consolazione, di Anonymous che promette di sostenere la lotta palestinese e di ostacolare in tutti i modi possibili le forze maligne di Israele.
Il governo israeliano, che ha già utilizzato Twitter per incoraggiare i follower dell’account IDF ad esprimere il loro sostegno all’operazione militare e a seguire in tempo reale gli avvenimenti del fronte, può quindi godere dell’appoggio incondizionato dall’informazione ufficiale. Il pericolo è che, come già successo in altri conflitti, si scada nel sensazionalismo mediatico tanto caro ai Fede e ai Vespa, dimenticando che sotto i raid aerei, i missili e le bombe ci sono persone indifese e indifendibili le quali, nessuna esclusa, non hanno alcun interesse nel conflitto e non ci guadagneranno mai niente.
Questo conflitto, come tutti gli altri, è originato da pochi individui per perseguire i propri interessi personali, economici, politici e finanziari, senza scrupolo alcuno. Esso va fermato subito e a tal proposito il ruolo dell’ONU diventa particolarmente cruciale, indipendentemente da quale sarà l’esito dell’atteso pronunciamento sullo stato palestinese. Il presidente egiziano Mohamed Morsi, schieratosi apertamente a supporto di Gaza (forse l’unico ad averlo fatto fra i capi di stato), potrebbe essere un possibile mediatore nei negoziati diplomatici fra Israele e Hamas, ma non prima di un cessate il fuoco da ambo le parti. Nel frattempo i civili continuano a morire e non si placano le minacce reciproche fra i due contendenti attraverso i media e il Web, nel più totale silenzio del governo italiano.
La questione ha tutta l’aria di essere una vera e propria crisi di nervi degli esponenti sionisti e potrebbe diventare il vero canto del cigno per le mire egemoniche di Israele in Medio Oriente. Personalmente invito tutti coloro che oggi si schierano sul Web con una fazione o con l’altra, a non alimentare l’odio reciproco e sentimenti di intolleranza, bensì ad utilizzare invece i propri post e tweet per chiedere a gran voce la fine delle ostilità e l’impegno fattivo delle nazioni ed organizzazioni internazionali verso una soluzione pacifica definitiva alla questione israelo-palestinese che consenta finalmente a quella povera gente di uscire da questo terribile incubo.
Se poi pensate che questo argomento goda di adeguata attenzione su Twitter, sappiate invece che gli hashtag di maggiore tendenza sono #PompinoDay, iOS, Natale, Juve e Pdl. Credete che vi sia ancora qualche possibilità di un futuro roseo per questa umanità?
Ettore Guarnaccia
Le Nazioni Unite riconoscono ufficialmente lo Stato di Palestina
Le Nazioni Unite hanno votato in massa per il riconoscimento dello stato palestinese, ma i palestinesi incontrano ancora enormi limitazioni: non controllano i propri confini, lo spazio aereo o il commercio, hanno governi separati e in competezione fra Gaza e Cisgiordania, e non hanno unificato esercito e polizia.
Con uno straordinario sostegno internazionale, più di due terzi dei 193 stati membri hanno approvato la risoluzione con 138 voti favorevoli, 9 contrari e 41 astensioni.
https://www.studentnewsdaily.com/daily-news-article/un-vote-recognizes-state-of-palestine-u-s-objects/