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Guerra al Web! Storia, regia e finalità degli attentati alle libertà online

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Un lungo e nutrito articolo che illustra il difficile rapporto delle istituzioni con il Web, racconta la storia dei reiterati attacchi alle libertà online, denuncia l’uso di Internet a danno dei diritti fondamentali e della privacy dei cittadini, avverte dei pericoli che incombono tuttora sulla grande rete, smaschera la regia e le finalità che alimentano il conflitto, fino a delineare l’unica soluzione possibile per mettere d’accordo tutti. Pirati esclusi.

Il Web resta l’ultima frontiera della libertà d’espressione e d’informazione, l’ultima possibile fonte di verità a disposizione del genere umano che non sia assoggettata al controllo totale di corporation e governi. Il Web è, di fatto, l’ultima possibilità che tutti noi abbiamo di giungere al risveglio globale, di conseguenza abbiamo tutti il dovere di difendere la libertà della rete ad ogni costo, per salvaguardare la possibilità di condivisione e di accesso ai contenuti di produzione indipendente e alla libera informazione.

Eppure, governi ed istituzioni hanno da sempre un rapporto complicato con la rete Internet e il Web, tanto che stanno cercando da anni e in tutti i modi, con i più svariati pretesti, di limitarne accesso e fruibilità. Oltre che sulle libertà che appartengono di diritto ai cittadini, infatti, la rete è fondata su principi come la Net Neutrality, in base alla quale operatori e governi hanno il dovere morale di garantire il trattamento di tutti i dati alla stessa stregua, senza discriminazioni nella gestione di utenti, contenuti, siti, piattaforme, applicazioni, apparati e modalità di comunicazione.

Le campagne contro terrorismo, pedo-pornografia, violazioni del diritto d’autore, apologia e istigazione a delinquere sul Web avviate dai governi, pur caratterizzate (sulla carta) da sacrosanti obiettivi, hanno enormi lacune in termini di presupposti e modalità: sono tutte stranamente indirizzate a colpire il mezzo di comunicazione e non lo specifico reato o l’autore. Come vedremo, questa non è una semplice svista, poiché gli elementi raccolti dimostrano che dietro le quinte c’è sempre stato qualcuno che, con premeditazione ed interesse personale, punta ad usare questi argomenti come vere e proprie leve per piegare i cittadini ad un uso controllato, limitato e censurato della grande rete.

Con l’obiettivo finale di controllare il dissenso, impedire il giornalismo indipendente, ostacolare il pubblico dibattito e la libera circolazione delle informazioni, mantenendo l’opinione pubblica ad un livello culturale più basso possibile, indirizzandola verso i tanti contenuti spazzatura quotidianamente preparati e serviti da televisioni e giornali.

Perché un cittadino disinformato è molto più facile da manipolare.

 

Il difficile rapporto fra istituzioni e Web

In molti, fra esponenti del governo, della politica e del giornalismo italiani, si sono espressi contro la troppa libertà della rete e a favore di aspre misure di limitazione, a partire da due fra le più alte cariche del governo, come il presidente della Camera, Laura Boldrini“la questione del controllo del Web è delicatissima, non per questo non dobbiamo porcela” (riferendosi ad attacchi a sfondo sessuale subiti personalmente) e il presidente del Senato, Pietro Grasso“Le leggi che proteggono dal Web… beh, quelle effettivamente le dobbiamo assolutamente ideare” – riferendosi al bisogno di protezione dalla rete che esponenti del governo e della politica lamentano come se fosse una terribile minaccia alla loro incolumità.

Ai due presidenti fa eco un vero e proprio coro di politici, come Fabrizio Cicchitto“Se non si apre una battaglia politica contro gli idioti, i mascalzoni, i fanatici che scrivono sulla rete e agitano gli animi, andremo incontro a seri rischi” -, Elsa Fornero“(il Web) è un catalizzatore assoluto di violenza… (dunque è necessario) …chiudere i siti offensivi e violenti” –, Maurizio Gasparri“«Serve qualche regola per impedire il festival permanente dell’odio senza controlli o sanzioni (sul Web)” -, Alessandra Moretti“…le peggiori porcherie che sul Web si scatenano facilmente considerato l’anonimato” – e Luigi Zanda“è dovere delle istituzioni arginare con iniziative legislative adeguate – che prevedano anche sanzioni – una deriva sessista e razzista che potrebbe alimentare propositi di violenza e sfociare in tragedia”. A quanto pare, il biasimo verso il Web è bipartisan.

Non mancano i giornalisti a rincarare la dose, come Beppe Severgnini“Minacciare, insultare o diffamare sul Web non è un’attenuante… è un’aggravante”, Alessandro Sallusti“Non si sta mai con i delinquenti. Non si danno alibi a chi spara ai carabinieri, uccide donne, ruba ai passeggeri degli aerei. Questo esercizio lasciamolo ai frustrati e ai vigliacchi che popolano, protetti dall’anonimato, i siti internet e i cosiddetti social network tipo Twitter”, oppure Gianni Riotta“Rete aperta non può implicare – come troppi illusi e furbi predicano, per ignoranza o interesse – che ognuno possa, protetto dall’anonimato personale e di Website, ricattare, calunniare, infangare, minacciare leader politici e semplici cittadini”.

A sentir loro, se i cittadini se la prendono con il governo, con la politica e con l’informazione ufficiale, la colpa è del mezzo di comunicazione, cioè della rete Internet, del Web e dei social network in genere. Non li sfiora nemmeno lontanamente l’idea che il malcontento e il dissenso possano essere generati dalla stanchezza dell’opinione pubblica per i continui inganni, scandali, soprusi, inefficienze, disinformazione, sperperi e imposizione fiscale. Ma no, figuriamoci, l’origine di tutti i problemi è il Web!

Non possono mancare le istituzioni, come l’Agcom (Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni) che pare non avere un rapporto sereno col Web, se il commissario Francesco Posteraro vi si riferisce come “una comoda copertura per calunnie, diffamazioni, pratiche odiose come la pedo-pornografia, episodi di cyber bullismo che sfociano talora tragicamente in suicidi di adolescenti”, dimenticando del tutto le ben più rilevanti potenzialità positive che esso è in grado di offrire. Il commissario non tralascia di citare l’anonimato – “Una sorta di generalizzata licenza di fare strame dei diritti altrui. L’anonimato serve a realizzare una predazione di opere dell’ingegno”, sebbene l’anonimato sia un importante mezzo per dare legittima copertura a chi deve denunciare irregolarità e crimini, magari sul proprio luogo di lavoro o nelle istituzioni stesse.

Non va dimenticata l’affermazione del comandante della Polizia Postale, Antonio Apruzzese, che preannuncia l’allestimento di una sorta di ”volante virtuale” con il compito di sorvegliare in maniera proattiva il Web alla ricerca di potenziali crimini, per intervenire all’istante sul piano cibernetico e, in un secondo momento, con agenti in carne ed ossa, di fatto sottraendo il potere discrezionale e decisionale che spetta solo alla magistratura.

 

L’uso che i governi fanno del Web per spiare e censurare i cittadini

A sentire tutte queste esternazioni di avversione e disapprovazione verso il Web verrebbe quasi da convincersi che dalla parte del torto ci siano i cittadini e gli utenti della grande rete. Fortunatamente, a sfatare questa esile convinzione giungono le varie misure che alcuni governi hanno deciso di adottare per infrangere impunemente la privacy dei cittadini, sottoporli ad un vero e proprio spionaggio senza restrizioni, attuare filtri di censura e assicurarsi che gli utenti accedano solo a ciò che è preventivamente autorizzato. Sembra incredibile, ma purtroppo è l’amara realtà.

Sull’onda dei casi Datagate e Wikileaks, si è scoperto da poco che gli Stati Uniti e i governi segretamente loro alleati stanno facendo il possibile per eliminare il diritto universale alla privacy online, ostacolando le disposizioni proposte all’ONU dai governi di Brasile e Germania. Queste disposizioni hanno l’obiettivo di includere la sorveglianza extraterritoriale e l’intercettazione di comunicazioni, informazioni personali e metadati fra le violazioni dei diritti umani, per contenere l’intenzione del governo americano di assicurarsi il diritto di spiare all’estero.

In Italia, il dimissionario presidente del Consiglio ed attuale esponente di Commissione Trilaterale e Gruppo Bilderberg, Mario Monti, senza alcuna legittimazione parlamentare, ha firmato il 24 gennaio 2013 un decreto presidenziale che conferisce ai servizi segreti l’accesso indiscriminato alle banche dati di vari settori: energia, trasporti, salute, credito bancario e telecomunicazioni. Praticamente tutto, con un blando ruolo di controllo conferito al COPASIR che ha il solo potere di richiedere informazioni sugli accessi effettuati. La storia ci insegna (caso Tavaroli) che, senza un controllo effettivo, sono molto elevate le probabilità che le leggi vengano tranquillamente aggirate, soprattutto in paesi come l’Italia che, mentre la Germania ha convocato d’urgenza l’ambasciatore USA affinché riferisse ad Obama che la pratica dello spionaggio oltreconfine non è gradita, è rappresentata da un presidente del Consiglio che passa più tempo alla Casa Bianca che a Palazzo Chigi.

Per carità, non preoccupiamoci troppo, perché in Italia è rimasto ben poco da spiare: i servizi segreti hanno accesso a tutto e sanno già tutto di tutti. Non bastasse, abbiamo avuto la splendida idea di regalare Telecom agli spagnoli, con tutte le infrastrutture di rete da essa gestite, perdendo di fatto il controllo diretto sulle telecomunicazioni nazionali.

Le lobby statunitensi dell’intrattenimento multimediale stanno cercando da anni di introdurre abbonamenti diversificati a Internet che consentano agli utenti, in base al prezzo corrisposto, una navigazione limitata, controllata e ristretta ai soli siti Web compresi nel pacchetto prescelto (stile Sky). Nel maggio del 2011, in Turchia, scesero in piazza ben 40mila persone per protestare contro l’intenzione governativa di creare una rete Internet suddivisa per fasce (standard, famiglia, bambini, ecc.), posta sotto il controllo della commissione BTK analoga alla nostra Agcom. Una reale minaccia per la Net Neutrality e la libertà di informazione, con ovvie implicazioni a livello di censura preventiva. Provate a pensare, infatti, se l’accesso illimitato alla rete diventasse troppo oneroso per i più, mentre gli abbonamenti più economici consentissero il solo accesso ai siti d’informazione istituzionale, totalmente controllati, deviati, manipolati e pregni di disinformazione: sarebbe un pericoloso ritorno al monopolio dell’informazione che si era determinato quando giornali e televisioni regnavano indisturbati sulla nostra mente e che si risolse a partire dagli anni ‘90 con l’affermazione di Internet e del Web.

 

La storia moderna degli attacchi istituzionali al Web

Giusto per avvalorare i contenuti dei due precedenti capitoli, vorrei sottoporre al lettore, il più sinteticamente possibile, la cronistoria degli attacchi portati al Web dalle istituzioni italiane negli ultimi anni, in particolare dall’avvento del Web 2.0 e durante la piena espansione dell’uso di Internet per fare libera informazione.

Si comincia nel 2005 con il Decreto Pisanu, volto ad impedire che i cittadini potessero collegarsi ad Internet da un qualsiasi accesso o locale pubblico con il pretesto della lotta al “terrorismo” (fenomeno ideato proprio da governi e servizi segreti), per poi passare nel 2007 al disegno di legge Franco Levi, che aveva l’obiettivo di identificare come prodotto editoriale qualsiasi servizio di informazione, formazione, divulgazione ed intrattenimento destinato alla pubblicazione con ogni mezzo, e al Decreto Gentiloni, che prevedeva l’obbligo per gli ISP (Internet Service Provider) di sovvertire il servizio DNS e filtrare gli indirizzi IP di siti di pedo-pornografia visibili dall’Italia e che ha portato comunque all’istituzione del Centro Nazionale per il Contrasto alla Pedo-pornografia su Internet.

Ma è il 2009 l’anno che ha visto più tentativi di limitazione, a partire dal Comma Pecorella (avvocato di Berlusconi), con l’obiettivo di applicare la Legge sulla Stampa (del 1948) anche ai siti aventi natura editoriale, per poi passare alla Legge Barbareschi (ex Mediaset) che avrebbe dovuto introdurre regole ferree a tutela del copyright per tutelare gli interessi delle lobby multimediali, all’emendamento di Giampiero D’Alia (senatore UDC) volto a reprimere l’attività di apologia ed istigazione a delinquere attraverso Internet, aggirando la magistratura e prevedendo una task force del Ministero dell’Interno, avente poteri di mandato impositivo verso i provider per ottenere la rimozione immediata dei contenuti scomodi.

Sempre nel 2009 ci furono: il tentativo della Legge Carlucci (ex Mediaset anch’ella) che aveva l’obiettivo di eliminare l’anonimato in rete, la Proposta Lauro (deputato PDL che cavalcò l’episodio della statuetta scagliata sul volto di Berlusconi) volto ad introdurre pene da 3 a 12 anni di reclusione per chi incita a delinquere attraverso mezzi telematici, e il Codice Roberto Maroni (anch’esso ispirato alla statuetta) che propose un decreto governativo per “fermare la violenza sul Web”. Maroni si spinse addirittura ad organizzare un incontro a porte chiuse con i più grandi fornitori di piattaforme Web (Facebook, Google, Yahoo!, ecc.) per definire come consentire alla Polizia Postale l’accesso indisturbato ai profili social degli utenti italiani, con l’obiettivo di sorvegliare le conversazioni private (MP, chat, ecc.) e poter chiudere ad insindacabile giudizio (aggirando nuovamente la magistratura) i profili scomodi, con l’obiettivo di preservare l’onorabilità e la reputazione degli esponenti di governo e politica a danno dei cittadini.

Ma l’attacco più ragguardevole del 2009, purtroppo andato a segno, fu quello del Decreto Romani. Imprenditore televisivo dei primi anni ’80 in Lombardia e produttore di programmi culturali come Colpo Grosso e Vizi Privati, Paolo Romani propose il recepimento della Direttiva Comunitaria UE denominata “AVMSD” (Audio Visual Media Services Directive) con l’obiettivo di armonizzare la diffusione dei contenuti multimediali attraverso Internet (es. WebTV, YouTube, Premium Play, ecc.), ma stravolgendo volontariamente il principio di esclusione delle attività “precipuamente non economiche e non in concorrenza con le emittenti televisive”. L’eliminazione di questa importante clausola esclusiva, prevista dalla direttiva UE, avrebbe comportato l’inclusione di tutte le attività di diffusione multimediale via Web, compresi siti, blog e canali video privati. La grande mobilitazione degli utenti della rete e delle associazioni in loro rappresentanza portò ad inserire nel decreto una differenziazione in base al fatturato (100mila euro), limitando gli effetti dannosi del provvedimento.

Nel 2010 si verificò il tentativo di introdurre nel DDL Intercettazioni l’estensione del “diritto di rettifica”, contenuto nella vetusta Legge sulla Stampa del 1948, anche ai siti Web e ai blog, insieme all’obbligo di rimuovere i contenuti diffamatori entro 48 ore. La proposta fu denominata “ammazza-blog” e venne sponsorizzata nientemeno che da Maurizio Gasparri al grido di “Internet è uno strumento micidiale”. Fu un chiaro tentativo di far passare un principio già bocciato in precedenza dalla storia, dal dibattito e dal senso comune di chi conosce ed apprezza la vera natura del Web, e qualcuno ricorderà la campagna di dissenso lanciata da Wikipedia in quel periodo. Ci salvò qualche giorno più tardi l’emendamento proposto dall’On. Roberto Cassinelli (PDL) al famigerato comma 29 del DDL.

Nel 2011 si affacciò il primo tentativo dell’Agcom con una proposta (Delibera N. 398/11/CONS) che doveva essere approvata il 6 luglio di quell’anno e che aveva l’obiettivo di tutelare i produttori di contenuti multimediali dalla pirateria online e dalle violazioni del copyright su qualunque sito, introducendo nuovamente l’obbligo di rimuovere i contenuti entro 48 ore, pena pesanti sanzioni pecuniarie. L’eventualità fu scongiurata, ma ci pensò più tardi (nel 2012) il deputato Giovanni Fava (Lega Nord) a proporre una disegno di legge che fu denominato “bavaglio del Web” e che riproponeva l’obbligo per i provider di rimuovere contenuti illeciti a fronte della semplice segnalazione del diretto interessato, incaricandoli anche del monitoraggio preventivo delle attività o dei contenuti potenzialmente lesivi o illeciti. Fortunatamente, anche questa proposta si arenò alla Camera.

Questi sono i tentativi più eclatanti che le istituzioni italiane hanno intrapreso negli ultimi anni per intaccare le libertà dei cittadini e i diritti degli utenti del Web e che hanno tratto ispirazione dagli altrettanto veementi tentativi internazionali sotto forma di trattati commerciali, come ACTA (accordo commerciale plurilaterale siglato a Tokyo il 26 gennaio 2012 da 22 paesi fra cui l’Italia e la cui ratifica è stata respinta dal Parlamento Europeo il 4 luglio 2012), CETA (accordo commerciale Canada-UE in tema di copyright presentato nel 2012 e non ancora sventato) e TPBO (proposta di regolamento internazionale a tutela del copyright e delle trasmissioni broadcasting, in rilascio entro il 2014), di disegni di legge come CISPA (H.R. 624 – Michael Rogers – 30 novembre 2011), SOPA (H.R. 3261 – Lamar S. Smith – 26 ottobre 2011) e PIPA (S. 968 – Patrick Leahy – 12 maggio 2011), oppure del recente tentativo di trasferire il governo di Internet dall’ICANN all’ITU.

Di questi ed altri tentativi di limitazione e censura ho scritto in vari articoli pubblicati nella sezione “Censorship”.

 

La nuova regolamentazione “bavaglio” proposta da Agcom

Non è finita qui. Una nuova minaccia si è affacciata all’orizzonte a metà del 2013 e punta ad introdurre misure di controllo e di censura dell’informazione particolarmente lesive per le libertà e i diritti di cittadini e utenti del Web. Si tratta della Delibera n. 452/13/CONS del 25 luglio 2013 che l’Agcom ha sviluppato durante incontri a porte chiuse fra il presidente Angelo Cardani e le federazioni di Confindustria Cultura e Confindustria Digitale (rappresentanze italiane delle lobby dell’entertainment), escludendo volontariamente le associazioni di tutela di provider e consumatori.

Un pessimo esempio di trasparenza da parte di un’autorità che sul proprio sito istituzionale riporta “Indipendenza ed autonomia sono elementi costitutivi che ne caratterizzano l’attività e le deliberazioni” e “l’Agcom risponde del proprio operato al Parlamento, che ne ha stabilito i poteri, definito lo statuto ed eletto i componenti” e ancora “L’Agcom è innanzitutto un’autorità di garanzia: la legge istitutiva affida all’Autorità il duplice compito di assicurare la corretta competizione degli operatori sul mercato e di tutelare i consumi di libertà fondamentali dei cittadini”.

La nuova regolamentazione comporta invece un pericoloso ridimensionamento dei diritti e delle libertà di espressione ed informazione, poiché ritenta l’introduzione dei criteri già contenuti nella precedente delibera del 2011 e nella legge bavaglio proposta da Fava. Con un’importante differenza: l’Agcom punta a deliberare la nuova regolamentazione senza passare per l’approvazione del Parlamento, in palese violazione del mandato istituzionale e dello statuto definito dal Parlamento stesso, la cui attuale composizione non è adeguatamente rappresentata presso l’autorità, visto che presidente e commissari in carica furono eletti nei mesi di giugno e luglio 2012, ben prima delle ultime elezioni politiche italiane (febbraio 2013).

In sintesi, la regolamentazione 452/2013 prevede la concessione a editori ed emittenti televisive del potere di far cancellare in sole 72 ore i contenuti Web a fronte di una semplice segnalazione, senza alcun vaglio della magistratura. In pratica, a fronte della segnalazione del titolare del diritto d’autore (anche presunto), l’Agcom si arroga il potere di disporre il sequestro o l’oscuramento di un sito, invertendo anche l’onere della prova, poiché sarà poi il proprietario del sito a dover dimostrare di essere il legittimo titolare dei contenuti. Da un singolo contenuto si può quindi giungere all’oscuramento di un intero sito (da innocente a colpevole fino a prova contraria), una norma che non si riscontra in alcun altro paese occidentale e democratico.

Data l’enorme sproporzione in dimensioni e mezzi dei colossi dell’informazione e dell’intrattenimento (che dispongono di intere redazioni, uffici legali e ingenti fondi) rispetto ai privati cittadini, ai blogger e ai giornalisti indipendenti, di fatto viene concesso un potere illimitato e incondizionato ai primi di controllare, vessare e ostacolare con estrema rapidità ed efficacia i secondi, sulla base di una semplice presunzione di violazione. Una piccola fotografia, un minuscolo spezzone di filmato o solo pochi secondi di un brano musicale sono più che sufficienti per innescare l’oscuramento e il sequestro senza il coinvolgimento di un giudice. In definitiva, questa regolamentazione non è altro che lo strumento perfetto per consentire a televisioni, giornali e multinazionali di mettere la mani sul Web, un obiettivo già tentato più volte negli ultimi anni da parte delle istituzioni, in particolare con il già citato Decreto Romani al quale Agcom si è ispirata per la nuova delibera.

Oggi l’informazione libera ed indipendente è fatta spesso con frammenti di trasmissioni e filmati tratti da programmi televisivi e radiofonici, al fine di potervi affiancare un commento audio o video. Altrettanto spesso accade che filmati realizzati da privati cittadini e blogger, caricati su hosting pubblici come YouTube, DailyMotion o YouReporter, vengano ripresi dalle emittenti televisive, oppure che fotografie private o realizzate da fotografi freelance vengano utilizzate da testate giornalistiche e riviste, senza alcuna autorizzazione (vedi la sentenza storica a favore del fotografo haitiano Daniel Morel). Uno dei possibili risultati della regolamentazione Agcom, grazie allo strapotere delle lobby dell’editoria e dell’intrattenimento, è che giornali e televisioni rivendichino la proprietà intellettuale dei contenuti sottratti a terzi, innescando arbitrariamente l’oscuramento immediato del sito o del canale video del legittimo proprietario, cui non resterà che tentare di rivalersi in sede giudiziaria, ma a caro prezzo e con tempi biblici.

La proposta di delibera ha generato un conflitto fra parlamento e governo, sia sulle norme da applicare in tema di protezione della proprietà intellettuale e del diritto d’autore, alle quali il parlamento sta già lavorando a parte, sia su ruolo e poteri da attribuire ad Agcom. Due distinti gruppi di parlamentari del PD e del Movimento 5 Stelle, infatti, stanno studiando proposte di legge che blocchino le iniziative di Agcom e portino ad una riforma complessiva e più razionale del diritto d’autore online, in contrapposizione alla Presidenza del Consiglio che lavora su una norma, da inserire nella Legge di Stabilità, in grado di bloccare qualsiasi protesta sul tema.

Le associazioni di settore coinvolte, come Altroconsumo e Assoprovider-Confcommercio, accusano Agcom di voler violare intenzionalmente i diritti fondamentali dei cittadini e i diritti universali dell’uomo. Le accuse sono supportate dalle opinioni di Stefano Rodotà (ex Garante Privacy e candidato alla presidenza dal M5S) e di Frank La Rue, Special Rapporteur dell’ONU in materia di diritto alla libertà di espressione e di opinione. A queste si aggiunge l’iniziativa di Felice Casson, magistrato, senatore e vicepresidente della Commissione Giustizia, firmatario con Cirinnà e Filippin (PD) di un disegno di legge presentato in Senato per modificare la Legge 22 aprile 1941 sul diritto d’autore: la proposta prevede che solo il Dipartimento di Pubblica Sicurezza del Ministero degli Interni possa raccogliere segnalazioni di violazione in tema di copyright e che sia l’autorità giudiziaria ad autorizzare sequestri ed oscuramenti. Va riconosciuto come la magistratura si sia dimostrata finora piuttosto attiva sul fronte del diritto d’autore, con un volume di circa 200 siti Web bloccati per violazione entro 48 ore dalla denuncia negli ultimi 12 mesi.

Dalla parte delle lobby si schiera invece Giovanni Legnini, Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei Ministri del Governo Letta, con delega all’Editoria e all’Attuazione del programma di governo. Legnini sta lavorando su una norma da inserire nella Legge di Stabilità che conferirebbe all’Agcom il potere di intervenire sul copyright online a 360 gradi, quindi non limitatamente ai contenuti audiovisivi dei quali Agcom fu già investita nel 2010 dal Decreto Romani in recepimento della Direttiva UE 2007/65 (meglio nota come Audiovisual Media Services, AVMS) in materia di esercizio di attività televisiva.

Se non verranno intraprese le indispensabili e improrogabili misure di mobilitazione e di dissenso in sede civile e istituzionale, la Delibera Agcom n. 452/13/CONS del 25 luglio 2013 entrerà in vigore il 3 febbraio 2014 (Art. 19). La posizione dei principali contestatori della delibera è rappresentata dal movimento “Sito non raggiungibile” (Adiconsum, Altroconsumo, Agorà Digitale, Assonet, Assoprovider, Studio Legale Sarzana) che aveva avviato la protesta poi sostenuta anche da politici bipartisan e numerosi esperti.

 

Chi c’è dietro le quinte: le lobby e il temibile rapporto 301

Come abbiamo visto, da circa un decennio la spinta verso il controllo di Internet è pressoché incessante e negli ultimi tre anni è addirittura aumentata notevolmente. Ma perché tanta determinazione nel tentare di imporre norme così restrittive sia a livello internazionale che a livello dei singoli stati? Chi o cosa alimenta questa volontà e spinge governi, istituzioni ed esponenti politici a reiterati sotterfugi per introdurre regolamentazioni vessatorie a danno di utenti del Web e cittadini?

La risposta proviene dall’U.S. Trade Representative (USTR), organo governativo statunitense, al diretto servizio della Casa Bianca, che sovrintende al commercio al di fuori dei confini USA. In una recente intervista, Stanford McCoy, Assistant U.S. Trade Representative for Intellectual Property and Innovation, afferma che il ruolo dell’USTR Office consiste nel “proteggere la creatività e l’innovazione” attraverso l’eliminazione dei porti franchi per i siti illeciti mediante l’adozione di adeguate misure anti-pirateria online nei singoli mercati nazionali. McCoy precisa che l’USTR sostiene fortemente la libertà della rete, a patto che sia accompagnata dal rispetto della legge, e precisa che “le norme sul diritto d’autore devono riflettere sia la protezione dell’ingegno che la garanzia del diritto d’informazione e di critica”.

Ebbene, l’USTR è autore del famigerato “Special 301 Report”, uno pubblicato annualmente per dare una valutazione sulla qualità della legislazione degli altri paesi mondiali in materia di proprietà intellettuale, identificando i governi che non forniscono una protezione adeguata ed effettiva del copyright, né un accesso giusto ed equo al mercato nell’interesse dell’industria statunitense. Il rapporto tratta anche l’uso di software coperto da copyright, le misure extragiudiziarie di takedown o le responsabilità dei provider, includendo una sorta di classifica dei paesi secondo il livello di tutela del copyright nel loro ordinamento giuridico e, quindi, di asservimento agli interessi economici di major e software house. Se un paese non soddisfa i criteri dell’USTR, può essere inserito nella lista dei paesi sotto osservazione o addirittura incluso nella blacklist denominata “Priority Foreign Country” e assoggettato a sanzioni commerciali.

Nell’ultimo rapporto (maggio 2013) la blacklist ospita la sola Ucraina, rea di danneggiare i diritti di proprietà intellettuale dei soggetti americani, mentre la lista dei paesi sotto osservazione prioritaria (“Priority Watch List”) accoglie Algeria, Argentina, Cile, Cina, India, Indonesia, Pakistan, Russia, Thailandia e Venezuela. Più nutrita la lista dei paesi sotto semplice osservazione (“Watch List”), fra i quali l’Italia risulta presente anche quest’anno con la seguente motivazione: “La pirateria online resta elevata in Italia, con diverse compagnie produttrici di contenuti che riferiscono come l’Italia abbia fra i più alti livelli di pirateria online nel mondo”, mentre, nonostante gli sforzi profusi dall’Agcom, il processo di introduzione di nuove regolamentazioni in materia è attualmente in stallo. Di conseguenza, “gli Stati Uniti sottolineano l’importanza di intraprendere azioni atte a finalizzare e implementare le regolamentazioni Agcom per generare un meccanismo efficace contro tutte le tipologie di pirateria ai danni del copyright su Internet”. Il rapporto cita anche le preoccupazioni USA inerenti il monitoraggio delle reti peer-to-peer ed incoraggia il governo italiano a “intraprendere ulteriori misure per ridurre significativamente i tempi di aggiudicazione delle dispute legali in tema di copyright e per garantire che i casi giungano a sentenza finale”.

Fra i paesi elencati nel rapporto spiccano le esclusioni eccellenti della Spagna, che ha recentemente varato la Ley Sinde (ispirata alla proposta di legge SOPA), della Francia (ideatrice della restrittiva Hadopi), del Regno Unito (che ha adottato il DEA, Digital Economy Act) e, stranamente, della Germania, nonostante abbia approvato la normativa “Link Tax” (detta “Google Tax” perché danneggia direttamente Google News) che si è rivelata una sorta di barriera per gli interessi commerciali statunitensi in seguito ad un uso improprio delle disposizioni in tema di copyright.

Il rapporto 301, quindi, non è altro che il principale strumento di pressione degli Stati Uniti verso l’introduzione delle misure arbitrarie di tutela del copyright e l’adozione di modifiche legislative favorevoli all’industria americana. Risultati eclatanti in tal senso sono stati conseguiti in Brasile, Canada, Taiwan, Corea del Sud, Giamaica, Repubblica Dominicana, Spagna e in particolare a Panama, la cui legislazione in materia è considerata probabilmente la peggiore nella storia. Nel mirino dell’USTR, quindi, c’è l’Ucraina, che sarà probabilmente la prossima nazione a subire pesanti pressioni diplomatiche affinché rafforzi la propria normativa ed esaudisca i desideri dell’industria statunitense, pena l’attuazione di sanzioni e ritorsioni commerciali.

Questo rapporto è di fatto la prova più lampante del potere esercitato dalle lobby americane e dei loro palesi tentativi di asservire l’interesse pubblico a quello privato: guarda caso, sono proprio le grandi industrie statunitensi ad inviare la documentazione all’USTR per la redazione dello studio, includendovi una descrizione degli sforzi che le singole aziende hanno posto in essere per far valere i loro diritti di proprietà intellettuale nei vari paesi, nonché una stima (assolutamente soggettiva) delle perdite economiche derivanti dalle presunte violazioni. Nel 2010, ad esempio, la IPAA, associazione di coordinamento delle organizzazioni rappresentanti dell’industria audiovisiva come MPAA e RIAA che opera a stretto contatto con l’USTR, aveva fatto pressioni per far inserire nel rapporto Indonesia, Brasile e India poiché i rispettivi governi incoraggiavano l’uso di software open source indebolendo l’industria del software. Il conflitto d’interessi dell’USTR è alquanto palese.

Il reale obiettivo delle lobby USA è, di fatto, l’estensione della normativa di riferimento (SOPA e ACTA in primis) a tutto il resto del mondo, mediante introduzione forzata della rimozione dei contenuti per via extragiudiziale, senza prove a supporto, con la complicità delle agenzie nazionali, assegnando ai provider l’esecuzione delle operazioni di censura e il controllo sull’uso illecito della connessione, nonché invertendo l’onere della prova a carico degli utenti. In definitiva, un preciso disegno di privatizzazione della giustizia e di condanna arbitraria di qualsiasi violazione, supportato da ricatti criminali quali la perdita di posti di lavoro e la diminuzione di valore economico per le aziende del settore. Ne è una conferma l’affermazione di Stanford McCoy in riferimento all’Italia: “Se il problema fosse affrontato più efficacemente, ne trarrebbero vantaggio gli investimenti stranieri, lo sviluppo economico e la creazione di posti di lavoro in Italia. Per queste ragioni incoraggiamo Roma ad adottare misure che creino un meccanismo efficace contro la violazione del diritto d’autore in rete”.

Le linee d’azione sponsorizzate dalle lobby sono essenzialmente due: una consiste nelle misure di disconnessione temporanea o definitiva degli utenti indisciplinati (es. Hadopi francese, DEA UK o norme USA) con criteri di risposta graduata verso l’intestatario della fornitura Internet, mentre l’altra prevede il blocco dei contenuti (es. Agcom, SOPA, PIPA, ACTA, Ley Sinde, Irish SOPA, ecc.). La prima è supportata dal fatto che l’industria del copyright dichiara l’inesistenza di un diritto del cittadino di accedere ad Internet e la legittimità della disconnessione per illeciti o del blocco dei contenuti, ma si è rivelato piuttosto oneroso e di scarsa efficacia. La seconda, invece, è attualmente quella favorita, poiché prevede una giustizia privata sommaria, portando rapidamente all’oscuramento o alla cancellazione di interi siti invece che dei soli contenuti contestati, senza troppe noie burocratiche o giudiziarie.

L’intervento dell’autorità giudiziaria non è previsto in alcun caso, anzi, esso viene accuratamente evitato in tutti i disegni di legge e i trattati promossi direttamente o indirettamente dalle lobby, ad ulteriore conferma che la regia dietro le quinte è sempre la stessa. Colpisce anche la segretezza meticolosamente adottata in tutti i negoziati di allestimento delle leggi e dei trattati sul tema, con la colpevole complicità di istituzioni e organi governativi che dovrebbero garantire il rispetto degli interessi pubblici e dei diritti del cittadino. Quale fiducia possiamo riporre nei governi che preparano le leggi in gran segreto, in combutta con gli interessi privati dei potenti, escludendo gli enti e le associazioni a tutela della gente e degli interessi comuni?

 

L’opposizione internazionale alle lobby: i casi di UE, Cile e Canada

Il sistema ideato dalle lobby è pensato per aggirare anche le norme europee in tema di tutela della privacy individuale. Vari tribunali UE hanno infatti sancito che la tracciatura online degli utenti, al fine di scoprire eventuali violazioni di copyright, è inammissibile, poiché in netto contrasto con le norme privacy. Il diritto di proprietà intellettuale è espressamente previsto dall’articolo 17 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea (2000/C 364/01) che, però, lo subordina al pubblico interesse. In aggiunta, l’articolo 14 della direttiva 2000/31/CE prevede chiaramente che l’eventuale disattivazione dell’accesso deve essere limitata alle sole informazioni incriminate, mai all’intero sito. Infine, per quanto riguarda la valutazione e l’ingiunzione delle misure da adottare a fronte di violazioni, l’attuale legislazione europea prevede che qualsiasi provvedimento inibitorio provenga da un tribunale o da un’autorità giudiziaria, a patto che non sia lesivo della fondamentale libertà d’espressione dei cittadini. Il medesimo avviso proviene sia dal rapporto ONU sulla libertà d’espressione del 16 maggio 2011, sia dal rapporto OCSE del 2011.

In seguito all’inclusione arbitraria di vari paesi comunitari (Spagna e Italia su tutti) nel rapporto 301 e all’applicazione di pressioni e ricatti da parte della diplomazia commerciale USA, l’Unione Europea ha tentato di contestare ed ostacolare tale pratica intentando la causa DS 152 presso l’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC), conosciuta anche con il nome inglese di World Trade Organization (WTO), la quale ha però stabilito che le sanzioni unilateralmente imposte dal governo degli Stati Uniti ad un altro paese sono da ritenersi conformi alle norme internazionali. L’Unione Europea sta comunque lavorando all’armonizzazione e all’unificazione della normativa comunitaria sul copyright, aprendo la strada alla possibilità di un vero e proprio conflitto commerciale fra UE e Stati Uniti, con reciproche sanzioni.

Un’eclatante opposizione alle misure imposte dalle lobby viene dal Cile, dove il Congresso Nazionale ha respinto tutti gli emendamenti di takedown extragiudiziario, per realizzare una riforma complessiva delle leggi sul copyright molto più favorevole alla libertà di espressione online. La normativa cilena esclude qualsiasi responsabilità dei provider in tema di monitoraggio e controllo, ed inverte l’onere della prova a carico delle aziende che contestano le violazioni.

Anche il Canada, pur avendo attuato misure restrittive di anticamcording e a tutela del copyright, si è espresso in contrapposizione alle lobby, affermando più volte che non riconosce alcuna validità al famigerato rapporto, in quanto non supportato da un’analisi affidabile ed oggettiva, ma pesantemente condizionato dall’industria americana. Entrambi i paesi hanno evidentemente capito che gli Stati Uniti non sono in grado di avviare una guerra commerciale per meri motivi di tutela del copyright, poiché le conseguenze risulterebbero alquanto penalizzanti per i loro interessi economici. Quanto ci metteranno gli altri stati a giungere alle medesime conclusioni?

 

La tutela del copyright come cavallo di Troia

Oggi, più che mai, si fa strada nell’opinione pubblica il convincimento che Internet e il Web non sono solo mezzi di svago, ma sempre più strumenti di realizzazione dell’individuo, attraverso le svariate possibilità di informarsi ed informare, di esprimere le proprie opinioni, di dialogare più efficacemente con le istituzioni o anche solo di guadagnarsi da vivere. Sia in Unione Europea che negli Stati Uniti, il blocco autoritario dei contenuti, che non violano alcuna norma o proprietà, è considerato inaccettabile dai cittadini, poiché è già largamente diffusa la consapevolezza che qualsiasi provvedimento non esaustivamente valutato né opportunamente mirato può ledere, anche incidentalmente, i diritti degli individui, soprattutto se l’attuazione è demandata a soggetti privati senza il filtro dell’autorità giudiziaria.

Il diritto alla proprietà intellettuale resta sempre e comunque un diritto prettamente economico, neanche lontanamente comparabile con le libertà della persona e i diritti pubblici come la libertà di espressione, di informazione o la tutela dei dati personali. Ogni volta che le questioni in tema di copyright sono andate in giudizio, infatti, i magistrati hanno fatto decadere il diritto di proprietà intellettuale se la sua tutela comportava una qualche lesione dei diritti pubblici o individuali, ecco perché l’industria del copyright le prova tutte per aggirare la magistratura. I provvedimenti di censura o di blocco, infatti, dal punto di vista delle lobby assumono un senso solo se attuati con rapidità ed efficacia, mentre i provvedimenti giudiziari richiedono un certo lasso di tempo, i processi sono molto onerosi e in tribunale è indispensabile provare un diritto, non semplicemente rivendicarlo.

Se veramente il problema fosse la tutela della proprietà intellettuale, un diritto riconosciuto da tutte le parti in causa, perché non affrontarlo alla luce del sole, con negoziati trasparenti e con il coinvolgimento diretto delle associazioni di tutela e del popolo del Web? Gli strumenti non mancano di certo, come ha ampiamente dimostrato l’Islanda, che nel 2010 ha approvato una legge a protezione totale di blogger e whistleblower alla Snowden per difendere la libertà d’espressione, e che nel 2012, dopo aver ribaltato il proprio sistema finanziario, ha approvato la nuova costituzione nazionale dopo averla elaborata insieme ai cittadini attraverso i social network. Quest’esperienza, in particolare, dimostra come il Web possa rappresentare uno straordinario strumento di democrazia e partecipazione, se utilizzato nell’interesse dei cittadini e per il bene pubblico, salvaguardando la libertà d’espressione individuale.

La grande industria del copyright non conosce altra strada che il sopruso e il sotterfugio, alimentata dalla smania di accrescere a dismisura i già lauti profitti, calpestando principi, diritti e libertà di sorta. Qualche tentativo è andato a segno, grazie alla complicità di meschini esponenti di governi e politica, ma la storia insegna che la comunità del Web è più forte di qualsiasi tentativo di controllo e censura. Appare evidente, infatti, come la tutela del copyright venga sistematicamente utilizzata come cavallo di Troia nel tentativo di penetrare la cinta difensiva della democrazia e della libertà, che ormai coesistono solo su Internet. Un proposito assolutamente folle, che finirà molto probabilmente con il ritorcersi a danno dei suoi stessi ideatori.

 

L’unica soluzione possibile: adeguarsi e costruire insieme

La pirateria va condannata e combattuta efficacemente e con durezza, nessuno ha mai messo in dubbio questo concetto. La soluzione è estremamente semplice: abbassare i prezzi dei contenuti multimediali e del software ad un livello ragionevole, in linea con il mercato, migliorando i servizi di diffusione e condivisione. In pratica, mettersi sullo stesso piano dei criminali, combatterli con i loro stessi mezzi, adottando i medesimi strumenti tecnologici e gli stessi canali di distribuzione, ma con l’indiscusso vantaggio di potervi investire capitali più ingenti.

Sarebbe così possibile mettere in vendita un film, un album discografico o un sistema operativo a pochi euro, cioè ad un prezzo onesto in rapporto all’elevato volume di utenza che è stato raggiunto in tutto il mondo, grazie alle più recenti tecnologie e alla sempre maggiore diffusione di dispositivi mobili. In poco tempo, i miliardi che i criminali sottraggono annualmente all’industria del copyright si trasformerebbero in guadagni ancor più ingenti per le lobby, con estrema soddisfazione di autori, major e utenti finali. La pirateria diverrebbe presto solo un lontano ricordo.

Tutto ciò è ampiamente realizzabile con il supporto delle associazioni di tutela e la partecipazione dei cittadini, nel pieno rispetto della proprietà intellettuale e dei diritti fondamentali, a partire dalla tanto insidiata libertà d’espressione online. La situazione attuale di conflitto fra le parti è frutto dell’irrigidimento dell’industria statunitense, che non ha saputo o voluto adeguarsi ai cambiamenti imposti di fatto dall’avvento di Internet e, successivamente, delle piattaforme social che costituiscono il Web 2.0.

L’avvento della pirateria è stato il risultato fisiologico della folle posizione assunta dalle lobby, poiché è riuscita a colmare quell’enorme voragine di domanda che l’offerta delle major e delle grandi software house, con i loro prezzi assurdi e fuori mercato, non era in grado di soddisfare, in particolare dopo l’avvento della crisi economica mondiale.

Inutile negarlo: oggi sono veramente poche le famiglie che possono permettersi di spendere dai 15 ai 40 euro per un audio CD o un titolo in Blu-Ray, oppure da 90 a 250 euro per un sistema operativo o un pacchetto software di office automation. Questi prezzi sono obiettivamente eccessivi e inducono gli utenti a ricorrere a soluzioni illegali, pur di poter usufruire dei contenuti. La domanda c’è, è viva, ma sono le strategie di offerta dei produttori ad essere rimaste ancorate a concetti vecchi di qualche decennio.

In tema di tutela del copyright, una possibile soluzione è rappresentata dal “fair use”, cioè la possibilità di utilizzo non commerciale di contenuti altrui, che non produca alcun contrasto economico con i rispettivi produttori (scrittori, testate giornalistiche ed emittenti televisive). Il fair use è una disposizione legislativa prevista nel Titolo 17, § 107, del Copyright Act (la legge sul copyright statunitense tuttora in vigore) e stabilisce, sotto alcune condizioni, la liceità della citazione non autorizzata, o dell’incorporazione non autorizzata, di materiale protetto da copyright nell’opera di un altro autore. Ad esso è affine il “fair dealing, concetto previsto nelle giurisdizioni consuetudinarie del Commonwealth delle Nazioni (Regno Unito, Canada, Nuova Zelanda, India e Malta) e corrispondente ad un elenco di possibili casistiche di difesa in caso di infrazione del copyright, ad esempio per finalità di ricerca e studio, critica, rassegna stampa o consiglio legale.

All’industria del copyright non resta che adeguare le proprie strategie commerciali e i canali di vendita, prendendo finalmente in considerazione la mutata natura della domanda di contenuti e di software, la varietà degli strumenti e dei canali di fruizione, nonché le effettive possibilità economiche della stragrande maggioranza dei cittadini. Da parte loro, i governi hanno il dovere istituzionale di promuovere una revisione seria, corretta e trasparente delle leggi in materia di proprietà intellettuale, partendo dall’attenta valutazione dei fattori chiave elaborati negli anni dalla giurisprudenza internazionale: oggetto e natura dell’uso (commerciale, didattica, senza scopo di lucro, ecc.), natura dell’opera protetta, quantità e importanza della parte utilizzata rispetto all’insieme dell’opera e, infine, le conseguenze del suo utilizzo sul mercato potenziale o sul valore dell’opera protetta.

Le basi per una riforma giuridica organica, efficace, corretta e vantaggiosa per tutti ci sono. L’unica soluzione possibile consiste quindi nell’abbandonare qualsiasi sciagurato tentativo di calpestare i diritti inalienabili di cittadini ed utenti, nell’abbattere il muro di arroganza e prevaricazione delle lobby e nel costruire tutti insieme una nuova regolamentazione, che garantisca il pieno rispetto dei diritti degli autori e della proprietà intellettuale, la salvaguardia dei diritti fondamentali dell’uomo e una libera fruizione di questo meraviglioso strumento di espressione individuale, informazione, democrazia, condivisione e partecipazione che è il Web.

 

Ettore Guarnaccia

 


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