Vediamo insieme tre errori gravi che, secondo la mia lunga esperienza sul campo, vengono commessi spesso durante le occasioni di formazione e sensibilizzazione sui rischi del digitale, con il risultato di rendere inefficaci, talvolta addirittura fuorvianti, gli interventi formativi e gli sforzi di educazione all’uso sicuro, consapevole e responsabile. Nel pieno rispetto dello stile educativo di chiunque, essi sono il frutto della mia percezione e vanno interpretati esclusivamente come suggerimenti e spunti dai quali è possibile trarre ispirazione.
1. Confondere il cyberbullismo con altri fenomeni
Un classico errore commesso da molti educatori e dai media in materia di digitale è quello di usare impropriamente il termine “cyberbullismo”, in una sorta di abuso nel quale si tende a includervi un po’ tutto ciò che è volto a danneggiare qualcuno. Invece, non tutto ciò che di negativo si svolge nell’ambito virtuale costituisce cyberbullismo, anzi, molti fenomeni sono per natura molto distanti da questo concetto. Per spiegare il perché, è bene partire dalle origini, cioè dalla definizione che Dan Olweus, professore e ricercatore norvegese di psicologia e pioniere della ricerca sul bullismo, ha coniato nel lontano 1996 per il bullismo “tradizionale”:
“Una persona è vittima di bullismo quando è esposta, ripetutamente e nel corso del tempo, ad azioni negative da parte di una o più persone, dalle quali ha difficoltà a difendersi”.
Dan Olweus, 1996
Quindi, si può parlare di bullismo quando si verificano tre specifici requisiti: [1] un’aggressione intenzionale, sia essa fisica o verbale, [2] la ripetizione nel tempo e [3] uno squilibrio di potere o di forza tra le parti. In tutti i casi in cui i tre requisiti non vengono soddisfatti tutti, non si può parlare di bullismo. Non è corretto, infatti, catalogare come atti di bullismo le aggressioni occasionali, gli attacchi reciproci, le vendette, i tentativi di estorsione e tutti quei fenomeni che mancano di reiterazione nel tempo e/o di predominanza fisica, psicologica, sociale o razziale di un soggetto sull’altro.
Il cyberbullismo è la trasposizione del bullismo classico sul palcoscenico delle moderne tecnologie digitali ed è stato definito da Bill Belsey, insegnante canadese e fondatore di bullying.org, come segue:
“Il cyberbullismo comporta l’uso delle tecnologie informatiche per supportare comportamenti deliberati, ripetuti e ostili di un individuo o un gruppo che sono mirati a danneggiare gli altri”.
Bill Belsey, 2002
Concetto ripreso successivamente da Peter K. Smith, professore emerito di psicologia al Goldsmiths College dell’Università di Londra, che ha prodotto questa definizione:
“Il cyberbullismo è un atto aggressivo e intenzionale, condotto da un individuo o un gruppo di individui, usando varie forme di contatto elettronico, ripetuto nel corso del tempo, contro una vittima che ha difficoltà a difendersi”.
Peter K. Smith, 2006
Non ha senso, quindi, racchiudere nel concetto di cyberbullismo altri fenomeni che, per natura, non presentano i requisiti fondamentali. L’aggressione deve essere intenzionale, mirata verso un obiettivo preciso, non casuale, e deve essere ripetuta per un tempo non breve e alimentata da un’evidente differenza tra la capacità del cyberbullo di attaccare e quella della vittima di difendersi. Un attacco di shitstorm, cioè l’invio di una valanga di insulti da numerosi utenti verso una vittima spesso casuale e per un tempo molto limitato, non è cyberbullismo. Il revenge porn, cioè la pubblicazione di immagini esplicite compromettenti della vittima a scopo di vendetta, non ha nulla a che vedere con il cyberbullismo, così come in caso di sextortion, cioè la pubblicazione a scopo di estorsione. Anche le offese estemporanee verso qualcuno mancano del requisito di reiterazione nel tempo e di squilibrio di forza tipico del cyberbullismo, pertanto vanno inquadrate come ingiurie e calunnie.
L’errore di confondere il cyberbullismo con altri fenomeni è stato commesso anche nella stesura dei contenuti e delle norme della Legge 29 maggio 2017 n. 71 che contiene le “disposizioni a tutela dei minori per la prevenzione ed il contrasto del fenomeno del cyberbullismo”, in gran parte inefficaci e inattuabili, a dimostrazione della confusione che regna sul tema anche presso gli organi legislativi. Non ha alcun senso parlare di cyberbullismo quando si tratta di violazione della privacy altrui, di campagne d’odio mirate per fini politici o discriminatori, di fenomeni autolesionistici, di emulazione di gesta pericolose altrui sui social, di adescamento o di condivisione volontaria o accidentale di immagini compromettenti di altre persone. Ognuno di questi fenomeni ha motivazioni e caratteristiche proprie, spesso molto lontane dal concetto di cyberbullismo, e anche le leggi applicabili sono sensibilmente differenti, pertanto è bene riferirvisi con il loro specifico nome per non alimentare la confusione che oggi regna incontrastata sui media e fra le persone.
2. Focalizzarsi sui divieti e non su meccanismi e conseguenze
Altro errore che viene commesso di frequente, dai media e da tanti esperti, è quello di rivolgersi al pubblico con numerose raccomandazioni su cosa “non fare” per evitare rischi, riempendo la testa del pubblico di divieti. Il cervello umano fa fatica ad accettare una proibizione senza ricevere una chiara spiegazione e una valida alternativa, mentre è più portato a comprendere e fare proprie regole che abbiamo una solida e comprensibile motivazione. Quando la motivazione viene compresa chiaramente e condivisa, in particolare sotto l’aspetto delle possibili conseguenze negative di un’azione o di un comportamento, può addirittura non essere necessario enunciare la regola, perché il soggetto abituato all’uso di logica e senso critico comprenderà da sé come modificare le proprie azioni per prevenire possibili problemi.
La modalità più efficace di far comprendere un comportamento sbagliato o pericoloso perché il soggetto destinatario modifichi realmente i propri comportamenti è basata su due requisiti fondamentali: [1] spiegare chiaramente e in dettaglio qual è il meccanismo che induce il comportamento errato e quali segnali lo rendono evidente, e [2] quali conseguenze negative possono derivare dall’adozione di tale comportamento e con quale gravità di impatto per il soggetto che commette l’azione e/o per colui che la subisce. Citare esempi pratici e casi reali giunti alla ribalta della cronaca pubblica può aiutare molto, soprattutto se in forma di storytelling, perché favorisce la comprensione della successione degli eventi e suscita empatia verso i personaggi colpiti dall’evento negativo.
La modalità è semplice: tizio ha subìto una disavventura, a causa di uno specifico meccanismo che ha indotto un particolare comportamento, che ha portato a una precisa serie di eventi, che gli hanno causato dei danni. Se tizio avesse conosciuto il meccanismo e fosse stato in grado di riconoscere i segnali e i comportamenti indotti, probabilmente sarebbe stato in grado di controllarne gli effetti. Non è indispensabile dire cosa non fare, spesso basta spiegare come agisce il meccanismo (tecnico, digitale, neurologico, ecc.) e quali sono le caratteristiche della sua azione per mettere in grado l’utente di riconoscerne l’influsso su di sé e sugli altri, comprenderne gli effetti e prevenirne le conseguenze prima che diventi un serio problema.
3. Additare e biasimare gli utenti, soprattutto i più giovani
Il terzo errore, forse quello più grave, consiste nell’adottare un tono di rimprovero, anche in forma indiretta, verso i soggetti che adottano comportamenti errati o pericolosi nell’uso del digitale, come fossero dei pazzi incoscienti o dei pervertiti debosciati. Questo tipo di approccio scava un solco profondo fra colui che ha il compito di sensibilizzare, educare e insegnare, e il suo pubblico, che dovrebbe portarsi a casa un bagaglio di consapevolezza e conoscenza che ne modifichi radicalmente convinzioni, scelte e azioni. Lo spettatore, che potrebbe già essere particolarmente scettico rispetto ai temi trattati, quando si sente dare dell’irresponsabile, dello sprovveduto o del depravato, può vedere nel relatore il classico esperto “so tutto io” che sale su un piedistallo e addita quello e quell’altro come per dimostrare che solo lui detiene il sapere e tutti gli altri sono degli ignoranti. Se si instaura questo tipo di reazione nel pubblico, il messaggio non passerà mai con la dovuta efficacia, anzi, potrebbe essere addirittura rigettato istintivamente generando resistenza.
Quando il pubblico è particolarmente giovane, soprattutto in caso di preadolescenti e adolescenti, si può dare per scontato di riscontrare uno scetticismo forte, radicato e diffuso. L’atteggiamento è spesso quello di chi dice “ecco qua l’ennesimo boomer espertone che ci viene a dire cosa dobbiamo e non dobbiamo fare con cose che nemmeno conosce così bene come le conosciamo noi” e lo si può vedere chiaramente nell’espressione di sfida o nell’atteggiamento di disinteresse di molti di loro. Non sanno di essere le vittime predestinate di produttori e sviluppatori di social media e dispositivi digitali, che tentano di costruire la società ipertecnologica e transumanista del futuro che avrà inizialmente la forma del metaverso.
Il problema si pone anche nel caso degli adulti, soprattutto quando si tratta di genitori, educatori o docenti. Molti genitori sono spaesati nell’approcciare questi temi, alcuni sono stressati da un rapporto conflittuale o distante con i loro figli, altri si sentono in preda a un senso di impotenza. Sono i primi a doversi mettere in discussione quando ci sono dei problemi seri da risolvere in famiglia, ma non puoi certo indurli a un passo così difficile adottando un atteggiamento di reprimenda e biasimo. Hanno bisogno di capire, di conoscere, di qualcuno che spieghi loro quali sono i segnali deboli da cogliere nei loro figli e quali sono i comportamenti più efficaci per costruire una relazione proficua con loro e per educarli all’uso responsabile, equilibrato e sicuro delle tecnologie.
Molti educatori e docenti sono stressati dall’incapacità di svolgere un compito loro imposto per disposizione ministeriale senza averne ricevuto adeguata competenza né preparazione, poiché non è mai stato attuato un programma governativo di formazione efficace sull’educazione digitale. Una buona parte di loro è preda dell’abitudine di essere depositaria del compito di insegnare agli altri, quindi mal si adatta al doversi mettere in gioco nel ruolo di destinatario di competenze, rese necessarie per assolvere a una funzione cui spesso non sono interessati e che non sentono propria per questioni di età elevata, carenza di motivazione o frustrazione accumulata in anni di insegnamento resi difficili da mille ostacoli (non ultima la famigerata DAD). Spesso il divario generazionale con gli studenti è talmente elevato da rendere l’impresa semplicemente irrealizzabile.
La chiave è l’empatia. Conoscere la propria audience, comprenderne motivazioni e stato emotivo, individuarne l’approccio, sono tutti elementi fondamentali per modulare il messaggio e tararlo al meglio perché sia realmente efficace. Mettersi nei panni di chi ascolta, anche attraverso l’interazione diretta e specifiche domande conoscitive, aiuta enormemente a suscitare l’interesse del pubblico e a far penetrare la consapevolezza anche nelle menti più resistenti. Far capire che sei lì per aiutare a comprendere aspetti ostici, risolvere i dubbi, favorire l’esternazione di quesiti personali taciuti o nascosti che richiedono una risposta, imparare a tua volta degli aspetti che non conosci e non avevi considerato. Evitare di salire sul piedistallo, anzi, mettersi a disposizione, offrendo competenza, preparazione e visione, senza commettere l’errore di scagliare anatemi verso chi sbaglia o ha sbagliato per inconsapevolezza e impreparazione.
Gli utenti, siano essi giovani o adulti, figli o genitori, studenti o docenti, sono solo vittime, non hanno scelto di comportarsi così, ma sono stati spinti da meccanismi ingannevoli ad abbracciare forme di tecnologia cui non sono stati preparati e con le quali si sono dovuti confrontare, imparando di volta in volta dagli errori commessi e in molti casi pagandone il prezzo.
L’avvento di Internet, del web, dei social network e dei dispositivi digitali si è verificato in un tempo relativamente ristretto, 15-20 anni, con innovazioni tecnologiche che si sono susseguite e stanno procedendo a velocità sempre più elevate. Non abbiamo avuto il tempo di prepararci a un cambiamento epocale così vasto, invasivo e diffuso, che ha modificato profondamente i nostri comportamenti, le nostre scelte, i nostri processi mentali, le nostre attitudini. La società di oggi è nettamente differente rispetto a quella di soli 10 anni fa, tutto è digitale, tutto si svolge sempre più rapidamente e con modalità sempre nuove.
Abbiamo investito moltissimo nell’evoluzione delle tecnologie digitali e di comunicazione, mentre quasi nessun investimento è stato fatto sull’aumento della conoscenza, della competenza e della consapevolezza. Non abbiamo avuto l’opportunità di imparare con la necessaria gradualità un uso proficuo, sicuro e responsabile per noi stessi e per gli altri. Non è stata prevista e attuata una campagna formativa per le famiglie, né per gli insegnanti e gli studenti nelle scuole e nelle università, cioè i luoghi istituzionali dove vengono formati uomini e cittadini del futuro. La riprova è nell’uso prettamente ludico, inconsapevole e talvolta pericoloso che la massa fa degli strumenti digitali, proprio perché non è adeguatamente preparata. Ciò deriva sia dalla brama di profitto dei produttori, che massimizzano la forza attrattiva, l’interazione degli utenti e l’uso futile della tecnologia mettendo da parte l’etica, sia dalla grave carenza di visione e senso di responsabilità dei governi, forse accecati dalla ricerca di maggiore potere attraverso il controllo della massa.
Tenere presenti questi tre errori fondamentali e trarre insegnamento da essi aiuterà qualsiasi educatore a sensibilizzare al meglio il pubblico su temi legati al digitale, facendo passare i messaggi nella maniera più agevole e con la massima efficacia, contribuendo così all’opera di educazione e sensibilizzazione di cui la società moderna ha estremo bisogno.
Ettore Guarnaccia