Venerdì 25 novembre ho condotto un incontro di sensibilizzazione e consapevolezza sugli effetti dell’uso del digitale con i docenti dell’Istituto Comprensivo Statale “Carlo Ridolfi” di Lonigo (VI). Si è parlato dell’attention economy, l’economia dell’attenzione che si basa sul fatto che social media, app e dispositivi digitali siano pensati, disegnati e sviluppati per catturare l’attenzione degli utenti e mantenerli il più possibile incollati al display, ovviamente per finalità di business. Si è parlato anche dell’eccezionale aumento dei disturbi psicologici riscontrato negli ultimi 15 anni, cioè dall’avvento di social e smartphone, e dell’esplosione di casi negli ultimi due anni a causa di pandemia, lockdown e isolamento sociale.
Si è parlato di emulazione sociale e del fenomeno (per non dire “la piaga”) degli influencer, che promuovono temi vuoti, futilità e principi di bassissimo livello, oltre a ostentare una palese ignoranza. Ignoranza che coincide, purtroppo, con i deludenti e preoccupanti risultati delle recenti prove INVALSI, secondo i quali metà della popolazione studentesca italiana non raggiunge il livello minimo di istruzione in lingua italiana e matematica. Si è parlato anche dei tanti effetti psicologici, psicofisici e fisici che il digitale ha generato nella società e nelle nuove generazioni, per poi passare a parlare del futuro, cioè del metaverso e delle inevitabili conseguenze che avrà, come predetto da autori come Ernest Cline (Ready Player One e Ready Player Two) o Neal Stephenson (Snow Crash).
In conclusione dell’evento ho citato alcune parti del libro “Ready Player One” di Ernest Cline che trattano proprio di come potrebbe essere la scuola del futuro nel metaverso. Le riporto qui di seguito.
LA SCUOLA NEL METAVERSO SECONDO ERNEST CLINE
Il furgone era il mio rifugio. La mia bat-caverna. La mia fortezza della solitudine. È qui che andavo a scuola, facevo i compiti, leggevo libri, guardavo film, giocavo ai videogiochi. Al suo interno conservavo tutti gli oggetti che la scuola mi aveva donato: una console OASIS, i guanti aptici e il visore. Erano le cose più preziose che possedevo.
Il mio avatar si materializzò di fronte al mio armadietto, al secondo piano del liceo: nello stesso identico posto dove mi trovavo la sera prima, quando mi ero scollegato da OASIS. Guardai a destra e a sinistra, lungo il corridoio. L’ambiente virtuale in cui mi trovavo sembrava quasi (ma non del tutto) reale. Ogni cosa, su OASIS, veniva riprodotta alla perfezione, in tre dimensioni. A meno che non ci si fermasse a zoomare, esaminando l’ambiente con minuziosità, era facile dimenticarsi che tutto ciò che si vedeva era generato da un computer, persino con la scadente console OASIS che la scuola mi aveva fornito. Avevo sentito dire che, se avessi preso parte alla simulazione con un tipo di attrezzatura all’avanguardia, mi sarebbe stato impossibile distinguere OASIS dalla realtà.
Nessuno dei miei insegnanti o dei miei compagni di classe sapeva chi fossi, e viceversa. Agli studenti non era permesso usare i nomi avatar, a scuola. Era, perlopiù, una maniera per evitare agli insegnanti l’imbarazzo di dire cose tipo: «Pappone_Viscido, per favore, sta’ attento!» o «UccelloRovente69, puoi venire in cattedra a leggerci la tua relazione sul libro?». Gli studenti erano tenuti a usare i loro nomi di battesimo seguiti da un numero che li differenziasse dagli altri studenti con lo stesso nome. Quando mi iscrissi io, c’erano già altri due studenti che si chiamavano Wade. A me, quindi, era stato dato il nome di Wade3, che svolazzava sopra la testa del mio avatar quando mi trovavo a scuola. Suonò la campanella. In un angolo del display comparve un avviso: mi segnalava che mancavano quaranta minuti all’inizio della lezione. Accompagnai il mio avatar lungo il corridoio, spostando appena le mani per gestirne le azioni e i movimenti. Quando avevo le mani impegnate, per muoverlo potevo usare i comandi vocali.
Una delle cose che preferivo della scuola online era la possibilità di zittire i miei compagni di scuola togliendo loro l’audio, e lo facevo quasi ogni giorno. Il meglio era che il tutto veniva notificato a loro, che non potevano farci proprio niente. Non c’erano mai risse, a scuola. Non lo permettevano. L’intero pianeta di Ludus era un’area non–PvP: non venivano, cioè, ammessi i combattimenti player–versus-player. Nella mia scuola, le uniche armi consentite erano le parole: perciò avevo imparato a brandirle con una certa abilità.
Fino alla prima media ero andato a scuola nel mondo reale. Non era stata un’esperienza troppo piacevole. Ero un bambino tremendamente timido, mi sentivo a disagio, avevo poca autostima e ancor meno talento nel socializzare, effetto collaterale del fatto che avevo trascorso quasi tutta la mia infanzia all’interno di OASIS. Non avevo problemi a parlare con la gente o a fare amicizia online. Ma, nel mondo reale, interagire con altri esseri umani, e soprattutto con altri ragazzi della mia età, mi trasformava in un rottame di tic e nervosismi. Non sapevo mai come comportarmi, né cosa dire, e quando raccoglievo il coraggio per dire una cosa, sembrava sempre che fosse quella sbagliata.
Il mio aspetto era, in parte, il problema. Ero sovrappeso da tempo immemorabile. La fallimentare dieta a base di zuccheri e amidi che il governo mi somministrava rappresentava uno dei fattori fondamentali. Oltre a questo, ero anche un OASIS–dipendente, e per questa ragione l’unica forma di attività fisica che praticavo era scappare dai bulli, prima e dopo le lezioni. A peggiorare il tutto, il mio limitatissimo guardaroba consisteva in abiti di taglie improbabili, raccattati in negozi dell’usato o tra gli abiti della beneficenza, il che a livello sociale era un po’ come avere un bersaglio disegnato in fronte.
La scuola, per me, era stato un esercizio darwiniano. Un ricettacolo quotidiano di derisioni, abusi, isolamento. Quando entrai in prima media, iniziai a domandarmi se sarei riuscito a mantenere la mia salute mentale almeno fino al momento del diploma, di lì a sei lunghi anni. Ma poi, quel glorioso giorno, il nostro preside annunciò che ogni studente che avesse una media sufficiente per la promozione avrebbe potuto fare domanda per il trasferimento sul nuovissimo sistema scolastico pubblico di OASIS. Il sistema scolastico del mondo reale, quello gestito dal governo, ormai da decenni era una sovraffollata e inesorabile catastrofe priva di fondi. Molte scuole versavano in condizioni così disastrose che, a qualsiasi studente che fosse ancora in grado di intendere e di volere, veniva consigliato di seguire le lezioni da casa. Rischiai di rompermi l’osso del collo correndo all’ufficio scolastico per firmare la mia domanda, che fu accettata. Nel semestre successivo mi trasferii alla scuola pubblica di OASIS numero 1873.
Le scuole erano tutte identiche perché lo stesso codice strutturale veniva copincollato nei luoghi in cui serviva una nuova scuola. E, dal momento che gli edifici erano solo tasselli del software, i progetti non erano sottoposti a vincoli finanziari o alle leggi della fisica. Ragion per cui ogni scuola era un grande, sfarzoso palazzo dell’apprendimento, con corridoi in marmo lavorato, aule simili a cattedrali, palestre a gravità zero e biblioteche virtuali che contenevano ogni volume che fosse mai stato scritto e approvato dal consiglio scolastico.
Il primo giorno che passai alla SPO n. 1873, credetti di essere in paradiso. Ogni mattina, anziché scansare il manipolo di bulli e drogati che avrei dovuto evitare per raggiungere la scuola, andavo nel mio nascondiglio e ci passavo tutto il giorno. E inoltre, su OASIS nessuno poteva sapere che ero grasso, che avevo i brufoli o che tutti i giorni portavo gli stessi miseri vestiti. I bulli non potevano tartassarmi di sputi, tirarmi le mutande fin sopra la testa, o prendermi a pugni nel parcheggio delle biciclette dopo la scuola. Non potevano nemmeno toccarmi. Ero, finalmente, al sicuro.
Quando entrai nell’aula dove si sarebbe tenuta la lezione di Storia mondiale, notai che molti studenti erano già ai loro posti. I loro avatar sedevano immobili, con gli occhi chiusi. Questo indicava che erano «occupati», ovvero che al momento erano al telefono, navigavano in rete o stavano chattando. Non era educato, su OASIS, cercare di conversare con un avatar occupato: in genere saresti stato ignorato, per poi ricevere un messaggio automatico che ti invitava a levarti dai piedi. Mi sedetti al banco e premetti l’icona di «occupato» in cima al display. Le palpebre del mio avatar si chiusero, ma potevo comunque guardarmi intorno. Premetti un’altra icona per aprire la grande finestra di un browser, sospesa nell’aria di fronte ai miei occhi. Solo il mio avatar vedeva queste finestre: così nessuno poteva spiare quello che facevo (a meno che non attivassi l’opzione che lo consentiva).
Tutti gli insegnanti che avevo erano più o meno fantastici. A differenza dei loro colleghi del mondo reale, sembrava che agli insegnanti della scuola pubblica di OASIS piacesse davvero il loro lavoro, e questo probabilmente perché non dovevano sprecare metà del tempo a fare le balie o i cani da guardia. Era il software OASIS a occuparsi della disciplina, accertandosi che gli studenti rimanessero ai propri banchi, in silenzio. Tutto ciò che gli insegnanti dovevano fare era insegnare. Online, anche tenere alta l’attenzione degli studenti era più semplice perché, su OASIS, le aule erano come «ponti ologrammi». Ogni giorno, i professori potevano portare gli studenti in gita virtuale senza nemmeno lasciare la classe. Durante la lezione di Storia mondiale di quella mattina, il professor Avenovich caricò una simulazione autonoma di quando alcuni archeologi, nel 1922, scoprirono la tomba di Tutankhamon. (Il giorno prima eravamo stati in quello stesso punto, ma era il 1334 a.C., e avevamo visto con i nostri occhi l’impero di Tutankhamon in tutta la sua gloria.) Nel corso della lezione successiva, biologia, viaggiammo attraverso un cuore umano e lo osservammo pulsare dall’interno proprio come in quel vecchio film, Viaggio allucinante. Durante la lezione di storia dell’arte visitammo il Louvre con i nostri avatar, che indossavano berretti imbarazzanti. La lezione di astronomia ci catapultò su tutte le lune di Giove. Camminammo sulla superficie vulcanica di Io mentre l’insegnante ci spiegava come si fosse formata quella luna. Mentre ci parlava, Giove si stagliò dietro di lei, riempiendo metà della volta celeste, la Grande Macchia Rossa che le vorticava, lenta, dietro la spalla. Poi la professoressa schioccò le dita ed eccoci su Europa, a discutere la possibilità di vita extraterrestre sotto la crosta ghiacciata della luna.
(Tratto dal libro “Ready Player One” di Ernest Cline)
Ringrazio la dirigente Dott.ssa Zelda Ferrarese e i docenti Enrico Zamboni e Adriano Clementi per l’invito e l’organizzazione dell’evento.